L’empatia nella relazione d’aiuto
Per mettersi nei panni dell’altro occorre prima conoscere i propri…
Per mettersi nei panni dell’altro occorre prima conoscere i propri…
L’empatia è la capacità di mettersi nei panni degli altri, per sintonizzarsi sulle loro emozioni senza confondersi con esse. Per coltivare l’empatia occorre quindi un iniziale coinvolgimento emotivo, unito ad un successivo distanziamento. Empatia è anche allargare lo sguardo verso gli altri uscendo dall’autoreferenzialità, per donare attraverso la comprensione profonda uno sguardo di compassione e di comprensione.
Rispecchiarsi nelle emozioni dell’altro
Infine empatia è non aver paura di rispecchiarsi nelle emozioni dell’altro.
Captare il vissuto emotivo delle persone dipende da specifiche aree del cervello collegate ai “neuroni specchio”, scoperti nel 1992 dai due neuro-scienziati italiani Giacomo Rizzolatti e Corrado Sinigaglia.
Basta scorgere in un’altra persona l’intenzione di compiere un’azione o vivere un’emozione per attivare istantaneamente nel proprio cervello le aree di risposta come se l’azione fosse già avvenuta o l’emozione già espressa.
Ma dopo avere captato le emozioni degli altri occorre imparare a gestire le proprie emozioni, perché se questo non avvenisse si correrebbe il rischio di confondersi con la sofferenza dell’altro, di “colludere” unendo le proprie ferite a quello dell’altra persona, come se ci si incollasse a vicenda.
Il poeta Pablo Neruda scriveva che «Ognuno ha una favola dentro che non riesce a leggere da solo, ha bisogno di qualcuno che, con la meraviglia e l’incanto negli occhi, la legga e gliela racconti». Si tratta di una narrazione biografica e autobiografica…
Chi può essere questo qualcuno in grado di leggere insieme a noi la favola che abbiamo dentro, che non sempre si presenta come una favola, ma a volte assume le sembianze di un libro dell’orrore? È una persona che è stata capace di soffrire prima di noi, che ha sofferto ma che si è anche meravigliato e stupito per la propria storia di vita ferita, qualcuno che ci ha messo mano e l’ha guarita, o almeno ci ha provato seriamente, e poi magari si è messo a disposizione per aiutare altri in quest’opera. È la mia storia, forse anche un po’ la tua che leggi…
Per fare tutto questo occorrono coraggio, l’empatia e anche un po’ di incoscienza… Occorre coltivare una certa dose di intelligenza emotiva.
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In psicologia si parla spesso di “guaritore ferito”, cioè delle ferite emotive del terapeuta che da una parte facilitano l’empatia visto che c’è una conoscenza diretta della sofferenza, dall’altra se le proprie ferite non sono state sufficientemente guarite rischiano di sommarsi a quelle delle persone accompagnate.
Un libro di grande ispirazione per chi si occupa di relazione d’aiuto
Solitamente chi si occupa di psicologia lo fa perché ha avuto esperienze di sofferenza nella propria vita che, dopo essere state sufficientemente elaborate (si spera!), lo portano successivamente a desiderare di entrare in contatto con gli altri, a curare gli altri, a diventare un «apprendista stregone” che usa la propria ferita come una feritoia verso il prossimo» come avrebbe detto Aldo Carotenuto nel suo libro Lettera aperta a un apprendista stregone (Bompiani, 1998), e questo desiderio parte da meccanismi di difesa molto adattivi come l’altruismo, o l’affiliazione, ovvero la capacità di entrare in contatto sociale con gli altri, oppure l’autoaffermazione, forse anche la sublimazione.
Il guaritore ferito per essere sufficientemente guarito dev’essere stato prima sull‘isola, un luogo simbolico protetto, dove poter immaginare, sognare e sperimentare nuove realtà ed opportunità. L’isola è un simbolo che rimanda in maniera potente alla realtà del setting durante la relazione d’aiuto, un luogo dove conoscersi e ri-conoscersi.
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Il ritratto a Paul Guillaume di Amedeo Modigliani
“Conosci te stesso”, diceva l’oracolo di Delfi…. con un occhio rivolto all’interno e uno all’esterno, come nel ritratto che il pittore Amedeo Modigliani ha fatto per l’amico Paul Guillaume, disegnato con un occhio aperto e l’altro cieco e vuoto, come a dire che una parte dell’uomo è rivolta all’esteriorità e all’esame della realtà, mentre l’altra è volta all’interiorità, cioè allo stupore e alla fantasia creativa, alla meraviglia e all’incanto, proprio come suggerito da Neruda.
Abbiamo detto che l’empatia è il fondamento per la vita sana di ogni individuo, un sentimento che consente di mettersi nei panni dell’altro. L’empatia viene da lontano, nasce dalla capacità della madre di sintonizzarsi sui bisogni del neonato, non a caso i problemi infantili più gravi nascono da quelle figure accudenti che non solo non offrono empatia, ma la richiedono ai loro figli, costringendoli ad adultizzarsi per soddisfare le loro carenze emotive ed affettive, con gravi rischi psicopatologici successivi.
Il terapeuta nei casi di mancata sintonizzazione empatica dovrebbe svolgere il delicato compito di saturare queste carenze empatiche, ponendosi come “oggetto-Sé sostitutivo” che consente una sorta di identificazione positiva e sopperisce, attraverso l’empatia e l’affettività, alle mancanze delle figure genitoriali. Percepire empatia porta l’individuo alla capacità progressiva di sviluppare una sana e soddisfacente vita relazionale ed affettiva.
È psicologo, counselor professionista e mediatore familiare. Fa parte del direttivo dell’Associazione di Psicologia Cattolica e ha co-fondato l’associazione non profit Famiglia della Luce con Camilla.
Per molti anni è stato giornalista e formatore nel settore eno-agro-alimentare, ha collaborato con numerose testate e diretto un quotidiano online. Ha inoltre scritto libri di enogastronomia, antropologia culturale e psicologia.
Oggi si dedica alla relazione d’aiuto con l’accompagnamento di singoli e coppie unito alla formazione relazionale dei gruppi nelle imprese profit e non profit.
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